DA ASSOSOFTWARE UN APPELLO ALLA RESPONSABILITÀ DI IMPRESE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE #CHIPUOPAGHI

#ChiPuoPaghi

E’ questo l’hashtag che vogliamo lanciare per sensibilizzare le imprese italiane che, anche nell’emergenza Covid-19, sono in grado di far fronte ai propri impegni verso dipendenti e fornitori.In rappresentanza di centinaia di aziende produttrici di software gestionali ci siamo sentiti chiamati in causa dalla eccezionalità di questo momento che, mentre ci richiede uno sforzo straordinario per continuare a garantire il funzionamento dei processi vitali delle imprese e delle filiere impegnate sul fronte dell’emergenza, ci sollecita a una presa di coscienza e responsabilità nei confronti di quanti oggi stanno affrontando una reale difficoltà con una prospettiva futura ancor più critica.

Per questo chiediamo che #ChiPuoPaghi, senza indugio.

Servirà sicuramente un nuovo “Piano Marshall” per tutti coloro che ne hanno bisogno: sarà indispensabile per evitare un tracollo ora e al termine dell’emergenza. Tuttavia, da subito, riteniamo che occorra una assunzione di responsabilità almeno da parte di tutti coloro che, in questa situazione critica, avendone i mezzi, possono dare un contributo importante all’economia reale per evitare l’aggravamento della crisi.
Chi può, paghi! Chiediamo che lo facciano ora gli imprenditori nei confronti di dipendenti, fornitori e intermediari, che lo faccia subito la Pubblica Amministrazione nei confronti dei propri fornitori tenendo fede ai termini contrattuali.
Come affermiamo nella lettera aperta (allegata e riportata in calce), non dobbiamo aspettare che siano “gli altri” a farlo.
Serve un’ulteriore prova di coscienza, di sensibilità, di rispetto e collaborazione, di serietà e professionalità.Coloro che intendono accogliere il nostro appello, se condiviso, potranno esternderlo ai loro Clienti e Fornitori nella speranza che sia raccolto e che siano in molti, anche in questo frangente così difficile, a dare un segnale positivo alle imprese e alle persone, al nostro Paese, prima ancora della fine dell’emergenza sanitaria.

 

Di seguito il testo della lettera aperta:

La diffusione del Covid-19 sta mettendo a dura prova i modelli organizzativi, le priorità e l’intero sistema economico del nostro Paese. Le misure fin qui intraprese non rappresentano che una minima parte di quanto sarebbe necessario fare per dare garanzie e sostegno a chi oggi si trova in serie difficoltà economiche e non esclude, con il perdurare della crisi, di dover chiudere i battenti!

Il primo fine mese di questa crisi è arrivato e con il fine mese, immancabilmente, moltissime aziende, in crisi di liquidità, decideranno di ritardare o congelare, per evidente necessità o per libera scelta, i pagamenti ai fornitori e persino ai dipendenti, generando un effetto a cascata di contrazione della liquidità in tutto il sistema economico. In questo momento è importante che le aziende che non vivono particolari difficoltà economiche e finanziarie utilizzino la liquidità esistente per evitare che il sistema economico arrivi al collasso.

Le aziende associate ad AssoSoftware sono impegnate in questa delicatissima fase a mantenere efficienti e protetti i sistemi di comunicazioni telematiche degli ospedali, della P.A., delle filiere produttive e dei servizi pubblici essenziali, degli apparati finanziari e della gestione della fiscalità dello Stato, con il pensiero rivolto al futuro di tutti, ai dipendenti delle aziende, ai fornitori e alla stabilità. Per questo sostengono l’importanza di compiere un gesto di normalità.

CHI PUÒ PAGHI.

È un dovere civico. Pagare i fornitori perché a loro volta possano pagare i loro dipendenti e i loro fornitori. Pagare le tasse: chi può lo faccia. Pagare i professionisti, anche loro hanno dipendenti. Se possibile rispettiamo le scadenze anche se prorogate. È un impegno che deve essere assolto, senza indugio, anche dalla P.A. centrale e periferica, chiamata anch’essa, soprattutto in questo momento, a saldare, nei tempi e nelle scadenze previsti dalle norme e dai contratti, i suoi fornitori.

Chi ha realmente bisogno deve usufruire degli aiuti, ma aiutiamo il circuito dell’economia reale a ritrovare spinta e velocità. Perché di questo abbiamo tutti bisogno e perché farlo conviene a tutti,proprio a cominciare da chi può rispettare i propri obblighi e i pagamenti. Gli imprenditori, gli artigiani, i professionisti, hanno un ruolo sociale importante, più della politica e più dei corpi intermedi della società, e questa crisi lo ha reso evidente. Ciascuno ora può e deve dimostrarsi all’altezza del proprio ruolo.

Non dobbiamo aspettare che siano “gli altri” a farlo. Non cerchiamo alibi. Non offriamo alibi. Diamo un’ulteriore prova di coscienza, di sensibilità, di rispetto e collaborazione, di serietà e professionalità.

CHI PUÒ PAGHI.

È il segnale di cui le imprese e le persone hanno bisogno, prima ancora della fine dell’emergenza sanitaria.

Manteniamo gli impegni. Stiamo con l’Italia!

#chipuòpaghi
Bonfiglio Mariotti – Presidente AssoSoftware

 

Fonte: AssoSoftware

Le app di monitoraggio Covid-19 non sono poi così sicure

Le applicazioni Android, lanciate per i cittadini dei Paesi più colpiti dalla pandemia come Iran, Colombia, ma anche la stessa Italia hanno avuto la sfortunata conseguenza di diventare possibili vettori inconsapevoli di cyber attacchi. Con la diffusione del virus, infatti, abbiamo visto il fiorire di un’ondata di applicazioni per cellulari Android a tema Covid-19 che hanno lo scopo di aiutare i cittadini a rintracciare i sintomi e tenere traccia delle infezioni da virus. Tuttavia, in alcuni casi, queste app hanno anche messo a rischio privacy e sicurezza dei cittadini.

Da una recente analisi, infatti, sono emerse varie preoccupazioni su queste tematiche, tra cui una backdoor in varie applicazioni. Secondo un post pubblicato recentemente da un gruppo di ricercatori, le app ricadono in due categorie: o sono state create e approvate dai paesi o studiate come un’invenzione una tantum dai criminal hacker per sfruttare l’attuale pandemia. I ricercatori hanno analizzato decine di app a tema Covid-19 che continuano ad emergere con la diffusione del coronavirus, aprendo la strada alle relative minacce alla sicurezza in tutto il mondo. Nell’analisi, hanno evidenziato tre che rappresentano una particolare minaccia per i cittadini, citando non solo la potenziale attività cybercriminale che potrebbe scaturire da queste, ma anche semplici errori degli sviluppatori.

Il caso iraniano

All’inizio di marzo in Iran, uno dei primi posti in cui Covid-19 è emerso come una seria minaccia per la salute, il governo ha rilasciato un’app ufficiale, disponibile su un app store iraniano conosciuto come CafeBazaar. L’app aveva lo scopo principale di rintracciare i cittadini, e ha suscitato non poche preoccupazioni sulla privacy perché, piuttosto che fornire informazioni vitali per la salute, sembrava avere l’unico scopo di raccogliere informazioni personali degli utenti. Se l’app in sé non era abbastanza preoccupante, i criminal hacker hanno anche creato un’app clone, chiamata CoronaApp, disponibile online per il download diretto da parte dei cittadini iraniani piuttosto che tramite il Google Play Store, e quindi non soggetta al normale processo di verifica che potrebbe proteggerli da intenzioni nefaste. Questo faceva leva anche sulla situazione politica del Paese, considerando che molti cittadini iraniani non possono accedere allo store ufficiale di Google Play, e sono quindi più propensi a scaricare app da altre fonti. Anche se CoronaApp non mostra ovviamente intenzioni malvagie, richiede il permesso di accedere alla posizione di un utente, alla fotocamera, ai dati di internet e alle informazioni di sistema, e di scrivere su uno storage esterno. Si tratta di una particolare raccolta di permessi che dimostra il probabile intento dello sviluppatore di accedere alle informazioni sensibili dell’utente. Inoltre, i creatori sostengono che l’app è stata costruita con il supporto del governo iraniano, anche se nulla conferma questa affermazione.

Buone intenzioni, pessima realizzazione

In Colombia, un altro Paese che ha imposto restrizioni ai cittadini durante la pandemia, il mese scorso il governo ha pubblicato su Google Play un’app per cellulari chiamata CoronApp-Colombia per aiutare le persone a monitorare i potenziali sintomi di Covid-19. Tuttavia, l’app includeva anche delle vulnerabilità nelle modalità di comunicazione via HTTP, che influiscono sulla privacy di oltre 100.000 utenti. Dal momento che effettua chiamate al server non sicure per trasmettere i dati personali degli utenti, CoronApp-Columbia potrebbe mettere a rischio la salute degli utenti e le informazioni personali sensibili a rischio di essere compromesse.

La situazione in Italia

Nel nostro Paese, il Governo ha creato applicazioni specifiche per ogni regione per il monitoraggio dei sintomi del coronavirus. Questa frammentazione ha però permesso ai criminal hacker di approfittare dell’incoerenza dei rilasci e della disponibilità delle app per lanciare copie maligne che contengono vaire backdoor. Naturalmente, un numero maggiore di applicazioni approvate dal governo fa sì che gli utenti siano meno sicuri di quali applicazioni mobile a tema Covid-19 siano legittime.

I criminal hacker, hanno approfittato di questa confusione, e hanno rilasciato applicazioni clone dannose per attaccare gli utenti che possono aver erroneamente scaricato l’app sbagliata. In tutto i ricercatori hanno trovato 12 pacchetti di applicazioni Android che facevano capo alla stessa campagna di Criminal Hacking. Tutti, tranne uno, hanno usato vari metodi di offuscamento per non farsi scoprire. Il sospetto era stato subito confermato dando uno sguardo al certificato di firma digitale della prima applicazione dannosa che hanno analizzato. Questo perché, anche se il servizio era a beneficio dei cittadini italiani, il firmatario della app era “Raven” con una posizione a Baltimora, probabilmente un riferimento alla squadra di Football americano Baltimore Ravens. La backdoor si attiva quando l’app Android riceve un segnale BOOT_COMPLETED, quando il telefono si avvia, o quando l’app viene aperta.

Il consiglio, per evitare una vera e propria diffusione a macchia d’olio di queste problematiche di sicurezza è di insistere sull’unicità e tenuta delle app rilasciate. Non deve essere neppure sottovalutata la due diligence durante il processo di sviluppo per garantire la sicurezza di qualsiasi applicazione mobile sponsorizzata dal governo ed evitare di mettere i cittadini a ulteriore rischio.

Fonte: Il Foglio

Informazione e Covid-19: il ruolo del giornalismo digitale e dei social network

9 Aprile 2020

Sulle testate online e sui social network stanno circolando troppi dettagli sui malati di coronavirus. Il monito del Garante privacy ci ricorda quant’è importante la sfida della corretta informazione tra il rispetto della privacy e il diritto di cronaca e tra il diritto di cronaca e il dovere e/o la necessità di informare

Cosa si intende per essenzialità dell’informazione giornalistica e come trovare il giusto equilibrio in un contesto di guerra al virus Covid-19? Sul punto il Garante privacy il 31 marzo 2020 ha espresso un importante monito ai media: troppi dettagli sui malati. Tale monito riguarda in larga parte anche le testate online e i social. Difatti oramai l’informazione si esprime per larga parte anche nell’universo digitale ed è soprattutto lì che deve essere combattuta la sfida della corretta informazione tra il rispetto della privacy e il diritto di cronaca; nonché tra il diritto di cronaca e il dovere e/o la necessità di informare e perfino di educare la cittadinanza alle primarie regole igieniche e di distacco sociale.

Sul diritto alla informazione e sulla necessità di essenzialità

Come anticipato, con la raccomandazione pubblicata il 31 marzo, il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto necessario richiamare l’attenzione di tutti gli organi di stampa, anche on line nonché dei social network, a non eccedere nella diffusione di dati personali eccessivi (nome, cognome, indirizzo di casa, dettagli clinici) riguardanti persone risultate positive al Covid-19.

L’Autorità ha ritenuto doveroso richiamare l’attenzione di tutti gli operatori dell’informazione al rispetto del requisito dell’“essenzialità” delle notizie che vengono fornite, astenendosi dal riportare i dati personali dei malati che non rivestono ruoli pubblici, per questi ultimi “nella misura in cui la conoscenza della positività assuma rilievo in ragione del ruolo svolto”.

Difatti anche per i personaggi pubblici, la sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. Pertanto, si deve evitare di diffondere informazioni sulla vita privata e familiare, a meno che siano direttamente connesse alla condotta tenuta dal politico o dal rappresentante istituzionale in questione.

Ma cosa si intende per “essenzialità delle informazioni” nel giornalismo? Ciò che va trovato è il giusto equilibrio tra diritto di cronaca ed i fatti di interesse pubblico. A tale riguardo possiamo fare riferimento a quelli che sono stati ritenuti i tre principi-cardine di un corretto esercizio del diritto di cronaca:

  • verità (anche solo putativa),
  • continenza della forma espositiva,
  • pertinenza o interesse sociale alla notizia.

Dall’insieme di questi tre elementi si ricava un concetto di essenzialità dell’informazione, al quale il giornalista deve attenersi, sia con riferimento ai contenuti sia con riferimento allo stile di esposizione dei fatti.

Con essenzialità si intende che la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata, quando l’informazione anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. L’essenzialità della informazione viene violata “quando il giornalista divulga dati sovrabbondanti rispetto al fatto di cronaca in sé. Inoltre, andrà rispettato anche il dovere di trattare i dati personali in modo corretto, a partire dall’obbligo di verifica della loro esattezza, e conseguentemente l’obbligo del giornalista di correggere senza ritardo errori e inesattezze. Tali principi costituiscono l’essenza di una corretta e professionale attività giornalistica.

Rappresenta l’Autorità che “anche in una situazione di emergenza quale quella attuale, in cui l’informazione mostra tutte le sue caratteristiche di servizio indispensabile per la collettività, non possono essere disattese alcune garanzie a tutela della riservatezza e della dignità delle persone colpite dalla malattia contenute nella normativa vigente e nelle “Regole deontologiche relative al trattamento di dati personali nell’esercizio della attività giornalistica”. Va ricordato che le “Regole deontologiche, pubblicate il 4 gennaio 2019 ed inserite nell’allegato A.1 del Codice privacy, costituiscono una norma dell’ordinamento giuridico generale, e ad essa devono adeguarsi tutti coloro che esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa. Ed è (all’art. 6) delle predette Regole che viene scolpito il principio della essenzialità della informazione.

Si rende necessario precisare che sebbene l’Autorità punti contestualmente il dito sui social network e sugli organi di stampa, anche on line, le Regole si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti e a chiunque altro, anche occasionalmente, eserciti attività pubblicistica (art. 13 Regole). Il rispetto delle disposizioni contenute nelle Regole costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali e, “in caso di violazione delle sue prescrizioni, il Garante può vietare il trattamento ovvero disporre il blocco o imporre sanzioni”. Inoltre, sempre in caso di violazione delle Regole, l’Ordine dei giornalisti può avviare, procedimenti disciplinari nei confronti degli iscritti.

Il rispetto dell’essenzialità della informazione nei social network

Il Garante nella raccomandazione di cui in narrativa, precisa che tali cautele – “che non pregiudicano comunque un’informazione efficace sullo stato dell’epidemia o eventuali comunicazioni che le autorità sanitarie e la protezione civile ritengano necessario fare sulla base della normativa emergenziale vigente − operano a prescindere dalla circostanza che i dati siano resi disponibili da enti o altri soggetti detentori dei dati medesimi ed inoltre salvaguardano le tante persone risultate positive al virus, e poi guarite, da una “stigmatizzazione” permanente, resa possibile dalla diffusione delle notizie sulla rete.

Continua l’autorità esplicitando che “l’obbligo di rispettare la dignità e la riservatezza dei malati vige anche per gli utenti dei social, a cominciare da alcuni amministratori locali, che spesso diffondono dati personali di persone decedute o contagiate senza valutarne interamente le conseguenze per gli interessati e per i loro famigliari.

La linea di confine, dunque, tra ciò che può essere considerato quale “essenziale e di pubblico interesse” e ciò che invece risulta “superfluo” è molto labile, spesso a discapito di soggetti deboli quali nel caso di specie, soggetti affetti dal Corona virus può travolgere tra l’altro le loro attività imprenditoriali e professionali, nonché la vita dei loro familiari, troppo spesso in rete senza che alcuna valutazione preliminare sia compiuta sul contenuto della notizia.

Al riguardo dobbiamo tutti non dimenticare, che l’ambiente dei social network non può divenire un ambito di impunita violazione di norme giuridiche e sociali in nome della libertà di espressione, del diritto di critica o della libertà del pensiero.

Pertanto nel caso di pubblicazione di post da parte di soggetti non appartenenti alla all’Ordine professionale dei Giornalisti o di pubblicisti va ricordato che, l’indebita pubblicazione di contenuti offensivi dell’altrui riservatezza e reputazione su un social network può procurare a carico del suo autore conseguenze afferenti all’ambito del diritto penale (si pensi alle fattispecie di diffamazione) o a quello del diritto civile, configurando in quest’ultimo caso fattispecie di responsabilità extracontrattuale (risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.)

Fonte: Agenda Digitale

Audizione informale, in videoconferenza, del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali sull’uso delle nuove tecnologie e della rete per contrastare l’emergenza epidemiologica da Coronavirus

Commissioni IX (Trasporti, Poste e Telecomunicazioni) della Camera dei Deputati

(8 aprile 2020)

1. Diritti, deroghe, limiti

La gravissima emergenza che il Paese sta affrontando ha imposto l’adozione- con norme di vario rango- di misure limitative di molti diritti fondamentali, necessarie per contenere auspicabilmente, il numero dei contagi.

La protezione dei dati personali – fondamentale diritto “di libertà”, sancito dalla Carta di Nizza – non poteva fare, naturalmente, eccezione, benché le limitazioni sinora adottate siano nel complesso contenute.

Alcune deroghe al regime ordinario di gestione dei dati sono state previste sin dalle primissime ordinanze intervenute pochi giorni dopo la deliberazione dello stato di emergenza, con prevalente riferimento all’ambito di comunicazione dei dati sanitari.

L’art. 14 d.l. 14/2020 ha sostanzialmente replicato tale disposizione, elevandone la fonte e rimarcandone il carattere temporaneo, senza tuttavia allo stato attuale riferirsi a raccolte di dati particolarmente “innovative”.

Nuove e più invasive raccolte di dati potrebbero fondarsi su esigenze di sanità pubblica che -al pari del “soccorso di necessità”- costituiscono autonomi presupposti di liceità, in presenza di una previsione normativa conforme ai principi di necessità, proporzionalità, adeguatezza, nonché del rispetto del contenuto essenziale del diritto.

2. Mappe epidemiologiche e sorveglianza

Va valutata entro questa cornice l’ipotesi della raccolta dei dati sull’ubicazione o sull’interazione dei dispositivi mobili dei soggetti risultati positivi, con altri dispositivi, al fine di analizzare l’andamento epidemiologico o per ricostruire la catena dei contagi.

Anzitutto, dal momento che sono ipotizzabili misure molto diverse tra loro, si dovrebbe privilegiare un criterio di gradualità e dunque valutare se le misure meno invasive possano essere sufficienti a fini di prevenzione epidemiologica.

In tale prospettiva non pone particolari problemi l’acquisizione di trend, effettivamente anonimi, di mobilità. L’art. 9 della direttiva e-privacy legittima il trattamento, anche in assenza del consenso dell’interessato, dei dati relativi all’ ubicazione, purché anonimi.

Tale soluzione consente di realizzare, ad esempio, mappe descrittive dell’andamento dell’epidemia, utilissime a fini prognostici e statistici, meno a scopi diagnostici in senso proprio.

Per altro verso, l’uso di dati identificativi sull’ubicazione o sull’interazione con altri dispositivi può risultare funzionale a diversi scopi.

In ogni caso, esso richiede – anche ai sensi dell’art. 15 della direttiva e-privacy – una disposizione normativa sufficientemente dettagliata e contenente adeguate garanzie.

I vari utilizzi possibili di tali dati possono essere finalizzati, in via teorica (e ragionando nei termini assunti dal dibattito pubblico di queste settimane):

a) o alla verifica della posizione del soggetto sottoposto ad obbligo di permanenza domiciliare perché positivo, utilizzando dunque la geolocalizzazione del telefono (che si presuppone, ma non è detto, segua passo passo il soggetto) per accertare l’effettivo rispetto del divieto di allontanamento dal domicilio, oppure:

b) all’acquisizione, a ritroso, dei dati sull’interazione del soggetto poi risultato positivo con altri soggetti, per verificarne, nel periodo in cui aveva capacità virale, gli eventuali contatti desumibili tramite varie tecniche: celle telefoniche, gps, bluetooth.

Le due ipotesi differiscono nella finalità: elemento, questo, indubbiamente rilevante per la valutazione della complessiva legittimità del trattamento.

La prima ipotesi infatti, nell’utilizzare la localizzazione del telefono come fosse una sorta di braccialetto elettronico atipico, presuppone la sostituzione, con l’occhio elettronico, dei controlli “umani”, dando però per acquisito che chi decida di violare gli obblighi di permanenza domiciliare porti con sé il telefono, il che è evidentemente contro-intuitivo.

Tra le altre misure utilizzate a fini di verifica del rispetto degli obblighi di distanziamento sociale vi è il ricorso, da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, ai droni.

Anche tali strumenti vanno utilizzati nel rispetto del canone di proporzionalità, soprattutto in ragione delle loro potenzialità particolarmente invasive della riservatezza.

Se utilizzata dalle forze di polizia, non per segnalare “impersonali” assembramenti, ma per monitorare il rispetto puntuale degli obblighi di permanenza domiciliare, infatti, tale misura difficilmente potrà garantire il rispetto del canone di proporzionalità, potendo prestarsi a una raccolta assai ampia di dati personali.

Sarebbe auspicabile, sul punto, una precisazione normativa, considerando anche che la norma di riferimento richiama genericamente le (non del tutto sovrapponibili) esigenze di controllo del territorio per finalità di pubblica sicurezza, contrasto del terrorismo e del crimine organizzato (cfr. art. 5, c.3-sexies d.l, n. 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla l. 43/2015, come novellato dal dl 113/2018, convertito con modificazioni dalla l. 132/2018).

3. Il contact tracing

Più complessa è la seconda ipotesi, relativa alla mappatura a ritroso dei contatti tenuti, nel periodo d’incubazione, da soggetti risultati contagiati. Tale ricostruzione dei contatti può avvenire, almeno astrattamente, attraverso l’incrocio di tipologie di dati diversi: quelli sulle transazioni commerciali, sulle celle telefoniche, quelli sull’interazione con altri dispositivi mobili desunti dal ricorso a tecnologie bluetooth.

Va premesso che ciascuna tipologia di questi dati ha, naturalmente, una diversa significatività a fini epidemiologici, tanto maggiore quanto più idonea a selezionare i contatti più rilevanti perché più ravvicinati e, dunque, maggiormente suscettibili di aver determinato, almeno potenzialmente, un contagio.

Come vedremo più avanti, la scelta della tipologia di dati più efficace incide anche sul complessivo giudizio di proporzionalità, in quanto la maggiore selettività riduce il perimetro di incidenza della misura al solo stretto necessario, con effetti socialmente apprezzabili in termini di tutela della salute, individuale e collettiva.

In termini generali, comunque, il fine perseguito da tale misura risulta particolarmente apprezzabile perché non già repressivo (come invece nel caso della sorveglianza del soggetto in quarantena obbligatoria mediante la sua geolocalizzazione), ma solidaristico.

Lo scopo perseguito coinciderebbe, infatti, con l’esigenza di sottoporre ad accertamenti quanti siano entrati potenzialmente in contatto con un soggetto risultato positivo al virus o, comunque, di adottare le misure utili a prevenire il contagio.

Si perseguirebbe, dunque, quella componente solidaristica del diritto alla salute quale interesse collettivo, valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale sugli obblighi vaccinali.

L’utilizzo di tale tecnologia avrebbe, del resto, poche valide alternative ai fini della ricostruzione della catena epidemiologica.

La semplice intervista del paziente può essere, infatti, lacunosa o comunque scontare la mancata conoscenza di molti soggetti con i quali si possa essere entrati in contatto nei più vari contesti (in farmacia, al supermercato ecc.).

Un elemento di fragilità delle soluzioni basate sui dati acquisiti da telefono attiene, però, al suo presupporre che tutti si spostino con il telefono addosso. E se questo avviene quasi sistematicamente per le fasce più giovani della popolazione, non avviene altrettanto sicuramente per gli anziani, che dovrebbero invece essere i primi a dover essere contattati in caso di temuto contagio, per essere curati con la massima tempestività.

Le soluzioni “tecnologiche” sono, infatti, validissime alleate dell’azione di prevenzione epidemiologica ma necessitano, evidentemente, di misure complementari di diversa natura, idonee a superare i limiti imposti, tra le altre cose, dal divario digitale.

Tale considerazione, sui limiti intrinseci alle opzioni tecnologiche, ha un duplice ordine di implicazioni.

In primo luogo, la valutazione dell’efficacia attesa dalla misura non può prescindere da un’analisi inerente le azioni complementari e, dunque, la fase- che dovrebbe ragionevolmente conseguirne- dell’accertamento sanitario dei soggetti individuati, tramite data tracing, quali potenziali contagiati.

Si possono raccogliere, infatti, tutti i dati possibili sui potenziali portatori (sani o meno che siano), ma se poi non si hanno le risorse (e persino i reagenti!) per accertarne l’effettiva positività, non si va molto lontano.

In secondo luogo, la necessità di ricostruire la catena dei contagi mediante i dati di dispositivi elettronici rende problematica l’imposizione di un obbligo generalizzato di uso di tali sistemi. Ciò, infatti, presupporrebbe la possibilità (non solo economica ma anche cognitiva) di utilizzo di smartphone e di loro funzionalità che non sono, oggettivamente, a tutti accessibili.

Inoltre, un simile obbligo di utilizzo sarebbe difficilmente coercibile salvo ricorrere a un vero e proprio braccialetto elettronico.

Se anche si ritenesse, come pure si sta ipotizzando, di far attivare il bluetooth direttamente da una app, come imporre, infatti, di uscire di casa solo se ‘accompagnati’ dal proprio smartphone, tra l’altro abbastanza carico?

Queste considerazioni inducono a preferire il ricorso a sistemi fondati sulla volontaria adesione dei singoli che consentano il tracciamento della propria posizione. Tuttavia, per garantire la reale libertà (e quindi la validità) del consenso al trattamento dei dati, esso non dovrebbe risultare in alcun modo condizionato.

Pertanto, non potrebbe ritenersi effettivamente valido, perché indebitamente e inevitabilmente condizionato, il consenso prestato al trattamento dei dati acquisiti con tali sistemi, se prefigurato come presupposto necessario, ad esempio, per usufruire di determinati servizi o beni (si pensi al sistema cinese).

L’efficacia diagnostica di tale soluzione dipende, in ogni caso, dal grado di adesione che essa incontri tra i cittadini, in quanto la rilevazione potrebbe per definizione avvenire solo limitatamente alla parte della popolazione che consenta di “farsi tracciare”.

La percentuale minima per l’efficacia è stimata nell’ordine del 60%.

E se a Singapore tale soluzione ha visto l’adesione di pressoché tutta la popolazione, ciò sembra imputabile prevalentemente alla specifica cultura e al grado molto avanzato di innovazione digitale di quel Paese.

Ciò non esclude però che un’adeguata sensibilizzazione sull’opportunità di ricorrere a tale tecnica, anche solo a fini egoistici- ovvero per essere informati di essere stati potenzialmente e inconsapevolmente contagiati tramite un contatto con soggetti positivi- possa invece consentire un’ampia adesione dei cittadini.

In tal senso, quindi, la volontaria attivazione di una app funzionale alla raccolta dei dati sull’interazione dei dispositivi, ben potrebbe rappresentare il presupposto di uno schema normativo fondato su esigenze di sanità pubblica, con adeguate garanzie per gli interessati (art. 9, p.2, lett.i) Reg. (Ue) 2016/679).

La seconda fase del trattamento (quella, cioè, successiva alla rilevazione dei dati) consiste essenzialmente nella conservazione degli stessi, in vista del loro eventuale, successivo utilizzo per allertare i potenziali contagiati.

Tale opera di “personalizzazione” dovrebbe avvenire limitatamente ai soggetti risultati poi positivi e a coloro ai quali, con essi, siano entrati in contatto significativo, per il solo periodo di potenziale contagiosità.

Sotto il profilo dell’impatto sulla riservatezza, determinato dalla conservazione in sé dei dati, in vista del loro successivo utilizzo, è certamente preferibile la soluzione della registrazione del “diario dei contatti” sullo stesso dispositivo individuale nella disponibilità del soggetto. Si eviterebbe così la conservazione di dati personali in banche dati dei gestori, che riproporrebbe le criticità rilevate dalla giurisprudenza della Cgue sulla data retention.

I criteri di necessità, proporzionalità e minimizzazione rimarcati dalla giurisprudenza europea indicano, comunque, l’esigenza di contenere tali limitazioni della privacy nella misura strettamente necessaria a perseguire fini rilevanti, con il minor sacrificio possibile per gli interessati.

Seguendo questo criterio, dovremmo allora ritenere anzitutto preferibile la misura più selettiva, che garantisca cioè il minor ricorso possibile a dati identificativi, sia in fase di raccolta sia in fase di conservazione.

In tal senso, ai fini della raccolta, il bluetooth, restituendo dati su interazioni più strette di quelle individuabili in celle telefoniche assai più ampie, parrebbe migliore nel selezionare i possibili contagiati all’interno di un campione più attendibile perché, appunto, limitato ai contatti significativi (così parrebbero orientati Singapore e Germania).

In particolare, sarebbero apprezzabili quelle tecnologie che mantengono il diario dei contatti esclusivamente nella disponibilità dell’utente, sul suo dispositivo, ragionevolmente per il solo periodo massimo di potenziale incubazione.

Il soggetto che risultasse positivo dovrebbe fornire l’identificativo Imei del proprio dispositivo all’asl, che sarebbe poi tenuta a trasmetterlo al server centrale per consentirgli così di ricostruire, tramite un calcolo algoritmico, i contatti tenuti con altre persone le quali si siano, parimenti, avvalse dell’app blue tooth.

Queste ultime riceverebbero poi una segnalazione (nella forma di un alert sul sistema) di potenziale contagio, con l’invito a sottoporsi ad accertamenti che, naturalmente, sarà efficace nella misura in cui sia responsabilmente seguito.

In tal modo, il tracciamento sarebbe affidato a un flusso di dati pseudonimizzati, suscettibili di reidentificazione solo in caso di rilevata positività.

Anche in tali circostanze, comunque, la stessa comunicazione tra server centrale ed app dei potenziali contagiati avverrebbe senza consentirne la reidentificazione, così minimizzando l’impatto della misura sulla privacy individuale.

In alternativa all’alert intra-app, si potrebbe ipotizzare che sia direttamente l’asl ad avvisare e, quindi, sottoporre ad accertamento le persone le quali, dalle rilevazioni bluetooth, risultino essere entrate in contatto significativo con il soggetto positivo.

La conservazione dei dati di contatto, da parte del server, dovrebbe comunque limitarsi al tempo strettamente indispensabile alla rilevazione dei potenziali contagiati.

L’anamnesi rimessa al medico consentirebbe, poi, di realizzare quell’intervento umano sul processo algoritmico richiesto dal Regolamento 2016/679 per evitare l’esclusiva soggezione umana a decisioni automatizzate, correggendone anche, così, possibili distorsioni e inesattezze.

In ogni caso, è auspicabile che la complessa filiera del contact tracing possa  realizzarsi interamente in ambito pubblico.

Ove, tuttavia, ciò non fosse possibile e anche solo un segmento del trattamento dovesse essere affidato a soggetti privati, essi dovrebbero possedere idonei requisiti di affidabilità, trasparenza e controllabilità, rigorosamente asseverati.

Potrebbe infine essere utile prevedere specifici reati propri, suscettibili di realizzazione da parte di coloro che, potendo avere accesso ai dati per qualunque ragione anche operativa, li utilizzino per altre finalità.

La soluzione ipotizzata ridurrebbe, verosimilmente allo stretto necessario, la sua incidenza sulla riservatezza. Tuttavia, benché non massivo, il trattamento di dati personali comunque realizzato richiederebbe, auspicabilmente, una norma di rango primario, (anche un decreto-legge, che assicura la tempestività dell’intervento, pur non omettendo il sindacato parlamentare né quello successivo di costituzionalità, diversamente dalle ordinanze).

Ove non si procedesse a un intervento legislativo ad hoc, sarebbe opportuno quantomeno integrare l’art. 14 dl 14/20, anche con misure di garanzia da prevedersi eventualmente con fonte subordinata.

La norma avrebbe anche una rilevante funzione performativa, fornendo una cornice generale di regole e garanzie cui uniformarsi anche a livello locale. Si eviterebbero così le autonome iniziative, differenziate da zona a zona che- in quanto spesso scoordinate e poco verificabili – rischiano di indebolire l’efficacia complessiva della strategia di contrasto. Quest’esigenza di uniformità vale sia a livello interno che sovranazionale. E’, in questo senso, assolutamente condivisibile l’auspicio del Garante europeo per la protezione dei dati, in favore dell’adozione di un unico progetto di data tracing in ambito europeo.

Naturalmente, come prescritto dalla Consulta per le disposizioni emergenziali, è fondamentale l’efficacia temporalmente limitata della norma, da revocare non appena terminato lo stato di necessità o, comunque, ove la prassi ne dimostri la scarsa utilità (in tal senso, sarebbero opportuni controlli periodici).

Ed è essenziale sancire (con il presidio di sanzioni adeguate) l’obbligo di cancellazione dei dati decorso il periodo di potenziale utilizzo (salva la conservazione in forma aggregata o comunque anonima per soli fini statistici o di ricerca) e l’illiceità di qualsiasi riutilizzo dei dati per fini diversi da quelli di tracciamento dei contatti, nei termini suindicati.

Così circoscritto, il ricorso al contact tracing potrebbe anche concorrere all’eventuale formazione del “passaporto sanitario digitale”.

Ci riferiamo, in particolare, alle varie iniziative suscettibili di adozione nella fase di ripresa delle attività, per la valutazione del grado individuale di rischio epidemico.

Vanno studiate, dunque, modalità e ampiezza delle misure da adottare in vista della loro efficacia, gradualità e adeguatezza, senza preclusioni astratte o tantomeno ideologiche, ma anche senza improvvisazioni o velleitarie deleghe, alla sola tecnologia, di attività tanto necessarie quanto complesse.

La chiave è nella proporzionalità, lungimiranza e ragionevolezza dell’intervento, oltre che naturalmente nella sua temporaneità.

Il rischio che dobbiamo esorcizzare è quello dello scivolamento inconsapevole dal modello coreano a quello cinese, scambiando la rinuncia a ogni libertà per l’efficienza e la delega cieca all’algoritmo per la soluzione salvifica.

Fonte: Garante Privacy

Caso INPS. Intervista a Raoul Chiesa: “Una bugia che fa capire perché la cybersecurity in Italia non funziona”

Sulla scia del caso INPS si sono sollevate polemiche senza fine sull’accaduto, sulle dichiarazioni del presidente dell’ente, Pasquale Tridico, e sui commenti che ne sono seguiti. Sul caso, come è noto, il Garante per la protezione dei dati personali ha già disposto un intervento ispettivo di cui aspetteremo gli esiti. Intanto sull’intera vicenda abbiamo voluto raccogliere il parere di Raoul Chiesa, uno dei massimi esperti nazionali in tema di sicurezza cibernetica.

Key4biz. Chiesa, lei ha seguito in questi giorni la vicenda della presunta incursione hacker ai danni del sito dell’INPS, che idea si è fatto?

Raoul Chiesa. Ho letto commenti ed opinioni di vario genere, confronti, battute, disamine molto precise, piuttosto che post quasi “goliardici”, ma ritengo che si tratti di un “incidente interno”, e non certo di un attacco, di cui stiamo sottovalutando le conseguenze e che, secondo il mio parere, è solo la punta dell’iceberg di ciò che non funziona nel nostro Belpaese in ambito di sicurezza informatica e procedure nella Pubblica Amministrazione.

Key4biz. In che senso?

Raoul Chiesa. Innanzitutto reputo estremamente grave che il Presidente di un ente come l’INPS affermi cose non fondate. Affermare di “…essere stati oggetto di un attacco hacker…“, quando ciò non è vero, ma anzi nasconde (consapevolmente o meno) una chiara incompetenza dell’ente nella gestione di una emergenza (che era peraltro facilmente prevedibile) ed indica semmai delle problematiche a monte. E non sto parlando “solo” di cybersecurity, ma anche di comunicazione e della cosiddetta “gestione di Cyber Crisis”. Ancora qualche giorno fa, su Rai1 a “Porta a Porta”, il conduttore Bruno Vespa chiede a Pasquale Tridico, presidente di INPS degli “attacchi hacker”, e quest’ultimo conferma e ribadisce quella che è, a tutti gli effetti, una cosa non vera o, se si vuole,una “Fake News”, come si usa definirle oggi.

Key4biz. E allora cosa è successo?

Raoul Chiesa. Tornando a noi ed al giorno del down del sito INPS, immagino più o meno quello che deve essere successo. Vi è stato un prevedibile picco di richieste e non inaspettato (come qualcuno ha detto), dal momento che era stato previsto all’interno del DPCM “Cura Italia”. Il problema è ovviamente andato subito in carico alla società che gestisce il sito, (che, non sappiamo, ma magari avrà subappaltato ad altre società le lavorazioni o parte di esse?), ma, come abbiamo visto, il problema è rimasto per ore ed ore.

Key4biz. Ma lei sostiene che il problema va anche oltre, in che senso?

Raoul Chiesa. Si, vorrei andare oltre, ad un livello superiore. Mi viene da pensare al bando di gara di assegnazione di quel sito così importante. Non lo conosco, ma mi chiedo, considerato quello che è successo, cosa avranno previsto per l’infrastruttura IT e di rete, nella progettazione e gestione dei server in caso di “picchi di rete” o di emergenze, per anche ciò che riguarda Business continuityDisaster recoverySecure coding e Secure programming. O molto più banalmente: hanno previsto dei servizi di outsourcing da attivare in caso di situazioni di questo tipo con provider che gestiscano gli improvvisi aumenti di carico banda e di richieste server-side? Ma mi viene anche da pensare che, forse, si è confusa la responsabilità sistemistica con quella di networking. Insomma si possono fare tante ipotesi tra negligenza e procedure di controllo discutibili

Key4biz. Quindi è stata sbagliata anche la comunicazione, cosa avrebbero potuto o dovuto fare?

Raoul Chiesa. Beh, c’è da chiedersi se i responsabili della comunicazione non debbano studiare un po’ cosa sia una “crisi cyber“, che altro non è se non una crisi ordinaria come le altre, ma che a differenza di altre è causata però da un incidente di tipo cyber, il che potrebbe indurre ad una gestione diversa e più cauta.

Key4biz. Di certo Pasquale Tridico presidente INPS avrà detto quello che i suoi tecnici gli avranno riferito o quantomeno immaginiamo che sia accaduto ciò…

Raoul Chiesa. Naturalmente non rientra nelle competenze del presidente Tridico capire cosa sia accaduto nell’apparato IT dell’ente. Certo quando avrà chiesto cosa stesse accadendo e il responsabile del servizio avrebbe dovuto rispondere in modo cristallino, non ci sarebbe stato nulla di male ad ammettere che non si era tecnicamente preparati a fronteggiare un picco di queste dimensioni (300-500 presentazioni di domande al minuto, che si sono rapidamente ammassate l’una sull’altra). E questo senza togliere nulla alla prevedibile generosità con cui immagino i dipendenti IT dell’INPS avranno lavorato in quei giorni per fronteggiare l’ondata di richieste annunciate dal premier Conte con il “Cura Italia”.

Key4biz. Ma allora dove potrebbe essere l’errore nelle dichiarazioni del presidente dell’INPS o nei resoconti che i suoi sottoposti hanno riportato a lui?

Raoul Chiesa. Innanzitutto vorrei ricordare che il malfunzionamento ha reso in chiaro le anagrafiche di contribuenti, dati che fanno molta gola al cybercrime. Cosa avrebbe dovuto fare Tridico? Non sta a me dirlo, ma mi faccio, come voi, qualche domanda. Prima di far perdere tempo alle competenti Autorità Giudiziare e alle Forze dell’Ordine, peraltrogià stracariche di lavoro e sotto forza; prima di gridare al mondo intero di essere stato vittima di un attacco hacker, peggiorando quindi la situazione e dichiarando magari cose non effettivamente verificatesi, avrei semplicemente chiesto prove, evidenze, per porre l’ente in condizione di sapere effettivamente cosa in dettaglio fosse accaduto e decidere quindi la comunicazione pubblica conseguente.

Key4biz. E gli hacker, quelli veri, che dicono?

Raoul Chiesa. Siamo riusciti persino a fare ridere quelli di Anonymous Italia, che da sempre sono molto ironici e autoironici e non necessariamente “cattivi sempre e per forza“. Non ho visto nessun hack di LULZ o di altri gruppi di Hacktivism in questo triste periodo che il nostro Paese ed il resto del mondo stanno attraversando. Il problema vero è e sarà il Cybercrime che sa essere sempre attivo ed approfittarsi di target indifesi, senza team tecnici presenti, di entità ed asset digitali abbandonati a sé stessi, in una nazione che sta affrontando una delle crisi più grandi degli ultimi due secoli.

Key4biz. E adesso cosa accadrà?

Raoul Chiesa. Le conseguenze di questo “Al Lupo-Al lupo” saranno molto gravi.

E la cosa più grave è tutto quello che questo incidente cela, nasconde, tutto ciò che non viene detto e di cui nei prossimi giorni, settimane e mesi, probabilmente, verremo piano piano a conoscenza. È l’errore, sono gli errori che stanno alla base delle nostre falle di sistema. È il nostro Sistema-Paese che non è pronto a tutte quelle belle buzzword di cui leggiamo ogni giorno, su media e social, piuttosto che nei company profile di tante “wanna-be” aziende esperte di trasformazione digitale, smartworking, cybersecurity, banda larga, big data, articial intelligence…. il tutto applicato alla Pubblica Amministrazione Centrale e Locale del nostro Belpaese.

Key4biz. Siamo vittime della fiumana delle tecnologie?

Raoul Chiesa. No, qui non vince o perde la tecnologia, perché per usare le tecnologie bisogna partire dalle persone e dalle procedure e regole. Se la Pubblica Amministrazione appare, come in questa vicenda, abbandonata a sé stessa e senza le competenze adeguate, questo dipende in primis dai sistemi di assegnazione delle gare, tutte orientate al massimo ribasso, che vuol dire decadimento della qualità. Si usa questo sistema perché contribuisce ad immunizzare dalle corruttele, nel senso che ci sono margini minori, ma il risultato è che le corruttele continuano e la qualità tecnologica della PA è in molti casi non adeguata o in mani estere.

Fonte:

https://www-key4biz-it.cdn.ampproject.org/c/s/www.key4biz.it/caso-inps-intervista-a-raoul-chiesa-una-bugia-che-fa-capire-perche-la-cybersecurity-in-italia-non-funziona/298817/amp/

Sì allo smart working nella PA, ma solo se made in Italy

06 Aprile 2020

Un emendamento del governo al decreto Cura Italia prevede che le piattaforme SaaS siano basate su “sistemi di conservazione, processamento e gestione dei dati necessariamente localizzati sul territorio nazionale”. Sprint di Italia Viva all’e-payment: obbligo nelle aree più colpite dall’emergenza Covid-19

Smart Working sì, ma solo se made in Italy. Un emendamento del governo all’articolo 75 del Cura Italia – il decreto ha iniziato il percorso di conversione al Senato – stabilisce che le piattaforme SaaS in uso nella PA siano basate su “sistemi di conservazione, processamento e gestione dei dati necessariamente localizzati sul territorio nazionale”.

L’articolo 75 del decreto istituisce un percorso semplificato per permettere alle PA di attivare rapidamente servizi digitali per i cittadini e per le imprese e facilitare l’adozione dello smart working. Fino al 31 dicembre 2020 un processo facilitato per gli enti per acquisire beni e servizi digitali, con particolare riferimento a servizi che operano in cloud: Software-as-a-Service, come ad esempio servizi di hosting, ma anche applicazioni, servizi che permettono il telelavoro, o servizi diretti al cittadino e alle imprese. Gli enti potranno acquistare questi beni e servizi con una procedura negoziata ma senza bando di gara e in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia.

Il fornitore dei servizi deve essere selezionato tra almeno quattro operatori economici, di cui una startup o una Pmi innovativa; inoltre gli acquisti di beni e servizi devono riguardare  progetti coerenti con il Piano Triennale della PA e integrati, laddove possibile con le piattaforme abilitanti (Spid, Anpr, PagoPA).

Fonte:

https://www.corrierecomunicazioni.it/lavoro-carriere/smart-working/smart-working-nella-pa-si-ma-solo-se-made-in-italy/

Newsletter 06/04/2020 – Sanità e ripartizione dei fondi: Garante Privacy chiede adeguate garanzie

6 Marzo 2020

Sanità e ripartizione dei fondi: il Garante Privacy chiede adeguate garanzie
Parere del Garante sul progetto del Ministero della salute che prevede la profilazione socio-sanitaria della intera popolazione italiana

Il progetto del Ministero della salute che prevede la ripartizione dei fondi economici per il Sistema sanitario nazionale (Ssn) attraverso la profilazione socio-sanitaria dell’intera popolazione italiana manca al momento di una base giuridica adeguata e di sufficienti tutele per le persone.  L’aggiornamento dei parametri di ripartizione del Fondo sanitario nazionale potrebbe, in ogni caso, essere già realizzato attraverso le analisi effettuate nell’ambito del Programma Statistico Nazionale.

Queste alcune delle valutazioni che il Garante per la privacy ha espresso al Consiglio di Stato, in merito a un quesito sottoposto allo stesso Consiglio di Stato dal Ministero della salute relativo ai nuovi criteri di ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale (Fsn), che prevedono il trattamento di dati personali, anche sulla salute, di tutti i cittadini assistiti dal Ssn.

Il Ministero della salute intende procedere alla distribuzione delle risorse economiche dello Stato tra le Regioni, passando da un modello basato sull’età della popolazione, ad uno fondato sull’effettiva necessità del territorio, la cui realizzazione presuppone la profilazione dello stato di salute dell’intera popolazione. Per raggiungere tale obiettivo, il Dicastero ha così proposto di raccogliere e interconnettere molteplici banche dati, sia interne al Ministero che di altre amministrazioni, come l’Istat e l’Anagrafe tributaria, in modo da definire il “profilo sanitario individuale” di ogni singolo utente del sistema sanitario, da collegare poi a quello reddituale (“status sociale”). Tale profilazione (“stratificazione”) dell’intera popolazione italiana, evidenzierebbe, secondo il Ministero, i reali bisogni economici sanitari delle regioni e costituirebbe, quindi, l’elemento centrale per una più equa distribuzione del fondo sanitario sul territorio.

Nel proprio parere, il Garante ha riconosciuto l’importanza di una migliore ripartizione del Fondo sanitario nazionale, basata su un’effettiva definizione dei diversi bisogni regionali, ma ha richiamato l’attenzione sulla necessità che i trattamenti di dati personali connessi a tale nuovo sistema di ripartizione siano effettuati nel pieno rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il progetto ministeriale prevede infatti la creazione di un profilo individuale di ogni assistito, basato sulle patologie croniche e sulla situazione reddituale individuale, che, attraverso l’uso di algoritmi, saranno utilizzati per suddividere tutta la popolazione in gruppi (stratificazione).

L’Autorità ha rilevato, infatti, che il nuovo modello di ripartizione potrà essere attivato solo superando alcune criticità.

A partire dal fatto che l’attuale normativa di settore non consente al Ministero della salute l’interconnessione dei flussi del Nuovo sistema informativo sanitario (NSIS) per la ripartizione del fondo sanitario e che manca un’adeguata base normativa anche per l’acquisizione di dati raccolti da altre amministrazioni (come quelli del registro delle cause di morte presso l’Istat, quelli dell’anagrafe tributaria, oppure quelli delle esenzioni per patologia contenuti nelle anagrafi regionali).

Il Garante ha inoltre posto l’accento sul rischio che questi dati siano utilizzati dal Ministero per finalità ulteriori, come la “medicina predittiva” o “di iniziativa”, un modello assistenziale orientato a proporre agli assistiti interventi diagnostici mirati, sulla base del profilo sanitario individuale. Anche questi ultimi trattamenti di dati richiederebbero, come i precedenti, un’apposita base giuridica e la necessità di effettuare ulteriori riflessioni anche sui risvolti etici relativi alla profilazione sanitaria e sociale di massa. Sul punto, il Garante ha rimarcato che l’utilizzo dei dati dell’intera popolazione italiana dovrebbe essere suffragato, fin dalla progettazione, da una compiuta analisi circa i rischi per i diritti e le libertà fondamentali degli interessati, alla luce dei principi di responsabilizzazione e di protezione dei dati personali, nonché dalla relativa valutazione di impatto.

In un’ottica di piena collaborazione istituzionale, l’Autorità ha comunque segnalato, nel suo parere al Consiglio di Stato, che, in attesa di un intervento normativo specifico in materia, l’aggiornamento dei parametri di ripartizione del Fondo sanitario nazionale potrebbe essere già utilmente realizzato attraverso le analisi effettuate nell’ambito del Programma Statistico Nazionale.

L’equità della ripartizione delle risorse economiche sul territorio nazionale può essere quindi realizzata nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali, attraverso un intervento normativo puntuale, con riferimento al quale il Garante ha già da tempo manifestato la propria disponibilità per l’individuazione delle garanzie opportune.

Fonte: Garante Privacy

Coronavirus, Google Maps consentirà di monitorare gli spostamenti delle persone

03 Aprile 2020

I report si basano su dati aggregati e anonimizzati e mostrano come sono cambiati i flussi sulle diverse aree geografiche nel corso delle ultime settimane

Per contrastare la pandemia di COVID-19 ovunque nel mondo è cresciuta l’attenzione verso le strategie di salute pubblica. Una, la più nota, è il distanziamento sociale, per rallentare la velocità di trasmissione o programmare la riapertura nelle aree soggette a restrizioni sugli spostamenti. Google Maps utilizza dati aggregati e anonimi per mostrare quanto sono affollati determinati luoghi, e identificare per esempio gli orari di punta di un negozio. “Le autorità sanitarie – si legge in un post dell’azienda di Mountain View – ci hanno detto che questo stesso tipo di dati aggregati e anonimizzati potrebbe essere utile per prendere decisioni critiche nella lotta al COVID-19”.

Divisi per categorie

Da oggi Google pubblica un’anticipazione dei Report sulla mobilità delle comunità durante COVID-19, per fornire informazioni su cosa è cambiato a seguito delle misure prese per appiattire la curva di questa pandemia. “Questi report, che verranno aggiornati regolarmente – prosegue il post – sono stati sviluppati per essere d’aiuto nel rispetto dei nostri rigorosi protocolli e norme sulla privacy”.

I report si basano su dati aggregati e anonimizzati per mostrare come si sono modificati gli spostamenti nel tempo e sulle diverse aree geografiche, in relazione a una serie di luoghi riuniti in categorie generali come “negozi e attività ricreative”, “generi alimentari e farmacie”, “parchi”, “stazioni di trasporto pubblico”, “luoghi di lavoro” e “abitazioni”. “Mostreremo le tendenze su un arco di diverse settimane, con le informazioni più recenti che si riferiscono a 48-72 ore prima della pubblicazione. L’aumento o la diminuzione delle visite apparirà in punti percentuale, mentre non saranno condivisi i numeri assoluti delle visite. Per proteggere la privacy delle persone, non verrà resa disponibile alcuna informazione personale identificabile – come la posizione di una persona, i contatti intercorsi o gli spostamenti”.

Un aiuto per il social distancing

Non è l’app di tracciamento tanto invocata in questi giorni, che dovrebbe arrivare a breve. E tuttavia, vista la quantità di dati in possesso di Google, questa iniziativa potrebbe essere molto utile a livello di studio: i report copriranno inizialmente 131 Paesi nel mondo, con approfondimenti su aree geografiche più specifiche; ma col tempo il numero  crescerà. .

“I dati – spiega Google – potrebbero aiutare a comprendere come sono cambiati gli spostamenti essenziali, e in questo modo permettere di suggerire raccomandazioni sugli orari di apertura dei negozi oppure su servizi di consegna a domicilio. In modo analogo, le visite frequenti a determinate stazioni di trasporto pubblico potrebbero indicare la necessità di aggiungere ulteriori autobus o treni, al fine di consentire maggiore spazio e distanziamento sociale tra le persone che devono viaggiare. In definitiva, capire non solo se le persone viaggiano, ma anche quali sono le destinazioni principali, in modo da poter progettare linee guida che salvaguardino la salute pubblica e le esigenze essenziali delle comunità”.

Oltre a questi report, l’azienda sta collaborando con un gruppo di epidemiologi, fornendo loro  un insieme aggiornato, aggregato e anonimizzato di dati, per aiutarli a comprendere e prevedere meglio la pandemia.

Tutela della privacy

I Report sulla mobilità delle comunità durante COVID-19 sono basati sulla stessa tecnologia usata per anonimizzare le informazioni nei prodotti di Google: si chiama privacy differenziale, e funziona aggiungendo rumore artificiale ai set di dati, e consente di avere risultati di alta qualità senza identificare nessuno. Le informazioni arrivano dagli utenti che hanno scelto di attivare la Cronologia delle posizioni, un’impostazione che è disattivata per default. È possibile disattivare l’impostazione in qualsiasi momento dall’Account Google o cancellare i dati direttamente dalla  Cronologia.

Fonte: LaStampa