Soro: “Pochi rischi per la privacy, i cittadini devono collaborare. E stop al fai-da-te delle Regioni”

Intervista ad Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
(Di Giovanna Vitale, La Repubblica, 18 aprile 2020)

Presidente Soro, la app scelta dal governo è sicura? Affidandosi a uno smartphone, i nostri dati sensibili non rischiano di diventare di dominio pubblico o essere utilizzati in modo poco ortodosso?

“Intanto una premessa: io non conosco la app su cui è caduta la scelta del governo. Nella fase della selezione, però, l’ufficio del Garante ha avuto una intensa interlocuzione con il ministero dell’Innovazione, al quale abbiamo fornito indicazioni molto chiare rispetto sia alla tutela dei dati personali, sia alla migliore tecnologia per garantirla. Un orientamento peraltro condiviso dalla Commissione europea e mi pare recepito da Immuni, che punta a privilegiare il sistema bluetooth con la pseudonimizzazione dei dati identificativi”.

Quali sono queste indicazioni?

“Le regole fissate dall’Europa per il tracciamento: no alla geolocalizzazione, sì alla tecnologia bluetooth, anonimato e volontarietà”.

Se l’app viene installata su un telefono che è associato a una sim, come si garantisce l’anonimato?

“Il sistema di tracciamento con la pseudonimizzazione dei dati identificativi funziona così: ogni 15 minuti il bluetooth rilascia un codice alfanumerico. Questa sequenza di codici resta immagazzinata su ogni singolo telefonino. Viene decodificata solo quando si individua un positivo e allora occorre ricostruire la catena epidemiológica dei suoi contatti”.

E come si fa a ricostruirla?

“Incrociando tutti i codici identificativi (e anonimi) che nell’ultimo periodo sono entrati in contatto con la persona infetta. A quel punto sulla app del potenziale contagiato, identificato con un codice alfanumerico, comparirà un avviso che segnala il rischio. La app, ricordo, è stata ceduta allo Stato: il gestore è pubblico. Non solo. Noi abbiamo anche chiesto che una volta che tali dati abbiano esaurito il loro ciclo vengano distrutti”.

Come si farà a convincere la gente a scaricare la app?

“Lo scopo del tracciamento coincide con l’esigenza di sottoporre ad accertamenti quanti siano entrati in contatto con un soggetto positivo o, comunque, di adottare le misure utili a prevenire il contagio. Ma il sistema funziona solo se verrà adottato da almeno il 60% degli italiani. Ai quali bisogna far capire che il diritto alla salute è un interesse collettivo: solo se lo perseguiamo tutti, in modo solidale, riusciremo a centrare l’obiettivo. Da qui anonimato e volontarietà come principi cardine”.

Ma basta una app per tenere sotto controllo il virus?

“No, sono necessarie una serie di azioni complementari, a partire dai test diagnostici dei potenziali contagiati. Si possono infatti raccogliere tutti i dati del mondo sui potenziali infetti, ma se poi non si hanno le risorse, o persino i reagenti, per accertarne renettiva positività non si va molto lontano. Inoltre non tutti dispongono di uno smartphone, specie gli anziani: il che rende il tracing uno strumento importante ma non l’unico”.

Quale pensa che sia il rischio principale?

“Ciò che mi preoccupa è il fatto che tutte le Regioni stanno adottando specifiche app regionali che contrastano con la strategia che occorre seguire in queste circostanze. Ovvero uniformare al massimo i comportamenti per inserire il da ta tracing in una strategia più generale che ci consenta di scongiurare nuovi focolai. Ma se ogni regione adotta la sua app e si fa il suo tracciamento, il potere persuasivo viene meno e il rischio di trattamento scorretto dei dati aumenta a dismisura”.

Fonte: Garante Privacy

“Le app degli spostamenti solo su base volontaria” – Intervista ad Antonello Soro

Intervista ad Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
(Di Valentino Di Giacomo, Il Mattino, 17 aprile 2020)

“Bisognerebbe adottare – e presto – una disciplina uniforme a livello nazionale che impedisca disparità di trattamento tra cittadini su base territoriale e assicuri garanzie equivalenti per tutti. C’è stata, invece, una proliferazione di iniziative”. Antonello Soro guida da otto anni l’autorità per la protezione dei dati personali. Il Garante della privacy ha letto l’inchiesta pubblicata ieri dal Mattino sui meccanismi adottati in Campania per tracciare i possibili spostamenti di chi ha contratto il Covid-19, ma teme che di questo passo non si riuscirà a tenere il conto delle tante iniziative regionali, con seri rischi sul profilo della sicurezza dei nostri dati. Fughe in avanti che potrebbero pregiudicare gli obiettivi comuni.

Attualmente la mappatura attiva in Campania avviene in forma anonima, senza associare i dati degli spostamenti a un nominativo. Lo ritiene un buon metodo?

“Il sistema cui fa riferimento l’articolo del vostro giornale sembra diverso dal “contact tracing” vero e proprio, in quanto funzionale alla localizzazione di coloro ai quali siano imposte misure di permanenza domiciliare e non, invece, alla ricostruzione della catena dei contagi. Anche tale soluzione deve però mantenersi entro il perimetro normativo, garantendo la proporzionalità e non eccedenza del trattamento dei dati”.

Resta il problema che una guida univoca a livello nazionale per affrontare questo tema non esista ancora. Teme che, come in Campania, possa svilupparsi un fai-da-te regionale che possa creare ancor più confusione?

“Ad ora ci sono tante iniziative. A ciascuna di esse, mi chiedo, è seguita effettivamente un’autonoma valutazione d’impatto privacy, l’individuazione di server sicuri nei quali allocare i dati in maniera protetta, impedirne usi a fini diversi e cancellarli non appena ne cessi l’utilità? Di fronte a una pandemia che esige un coordinamento almeno in ambito europeo, sarebbe contraddittorio differenziare – addirittura a livello regionale – le modalità di azione”.

Il Governo, su impulso del ministero dell’Innovazione, ha istituito una Commissione straordinaria denominata “Data Drive” al fine di sviluppare un’app che possa servire a tracciare gli spostamenti. Quali spunti ha dato il Garante?

“L’Autorità partecipa ai lavori della Commissione, in una posizione del tutto distinta da quella degli esperti di nomina ministe riale, per esprimere le esigenze di protezione dati sin dalla fase di scelta della soluzione da adottare. In quella sede, abbiamo in particolare indicato come preferibili le misure basate sulla volontaria adesione del singolo, sulla conservazione “in locale” del diario dei contatti, sui dati blue tooth (pseudonimizzati), in quanto maggiormente selettivi e, dunque, di minore impatto sulla privacy”.

Il cittadino può quindi rifiutare di essere mappato pur avendo contratto il virus e rappresentando un potenziale pericolo per la collettività? Non ritiene debba essere obbligatorio pur pregiudicando alcune libertà individuali?

“L’indicazione fornita alla Commissione è che siano preferibili soluzioni fondate sulla volontaria adesione del singolo, anche perché misure basate sui dati raccolti dai dispositivi mobili (che presuppongono dunque la costante presenza del telefono accanto a noi) sono diffìcilmente coercibili. Il contact tracing necessita dell’adesione di circa il 60% della popolazione: se si riesce a sensibilizzare tale quota di cittadini, il risultato potrebbe essere a un tempo rispettoso della privacy e proficuo per il contenimento dei contagi”.

L’Ue sta provando anche a creare un’unica app per l’intera Unione Europea. Avremmo uguali garanzie a quelle che abbiamo in Italia circa la tutela della privacy? Sarebbe una buona soluzione?

“L’ipotesi di un’app paneuropea non comporterebbe in alcun modo una riduzione delle garanzie di protezione dati. La disciplina della materia è, infatti, ormai di fonte direttamente europea e dunque gli Stati mèmbri applicano tutti la stessa disciplina, salvo limitati margini di dif ferenziazione. Peraltro, con riferimento al contact tracing, il Comitato europeo per la protezione dati ha condiviso un approccio assolutamente conforme a quello da noi indicato”.

Diritto alla salute e diritto alla privacy: saremo costretti a scegliere o esiste una terza via?

“La potenziale contrapposizione tra privacy e salute pubblica è il riflesso della più generale tensione tra libertà individuali e interessi collettivi, che solo la democrazia può rendere equilibrio, se non addirittura in sinergia. La sfida di oggi è nel garantire che i diritti individuali siano limitati nella (sola) misura necessaria a salvaguardare quante più vite umane possibili. La disciplina di protezione dati già comprende al suo interno le limitazioni necessarie a garantire istanze solidaristiche quali quelle espresse dalle esigenze di salute pubblica, secondo i criteri della proporzionalità, precauzione e temporaneità”.

Fonte: Garante Privacy

Audizione informale, in videoconferenza, del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali sull’uso delle nuove tecnologie e della rete per contrastare l’emergenza epidemiologica da Coronavirus

Commissioni IX (Trasporti, Poste e Telecomunicazioni) della Camera dei Deputati

(8 aprile 2020)

1. Diritti, deroghe, limiti

La gravissima emergenza che il Paese sta affrontando ha imposto l’adozione- con norme di vario rango- di misure limitative di molti diritti fondamentali, necessarie per contenere auspicabilmente, il numero dei contagi.

La protezione dei dati personali – fondamentale diritto “di libertà”, sancito dalla Carta di Nizza – non poteva fare, naturalmente, eccezione, benché le limitazioni sinora adottate siano nel complesso contenute.

Alcune deroghe al regime ordinario di gestione dei dati sono state previste sin dalle primissime ordinanze intervenute pochi giorni dopo la deliberazione dello stato di emergenza, con prevalente riferimento all’ambito di comunicazione dei dati sanitari.

L’art. 14 d.l. 14/2020 ha sostanzialmente replicato tale disposizione, elevandone la fonte e rimarcandone il carattere temporaneo, senza tuttavia allo stato attuale riferirsi a raccolte di dati particolarmente “innovative”.

Nuove e più invasive raccolte di dati potrebbero fondarsi su esigenze di sanità pubblica che -al pari del “soccorso di necessità”- costituiscono autonomi presupposti di liceità, in presenza di una previsione normativa conforme ai principi di necessità, proporzionalità, adeguatezza, nonché del rispetto del contenuto essenziale del diritto.

2. Mappe epidemiologiche e sorveglianza

Va valutata entro questa cornice l’ipotesi della raccolta dei dati sull’ubicazione o sull’interazione dei dispositivi mobili dei soggetti risultati positivi, con altri dispositivi, al fine di analizzare l’andamento epidemiologico o per ricostruire la catena dei contagi.

Anzitutto, dal momento che sono ipotizzabili misure molto diverse tra loro, si dovrebbe privilegiare un criterio di gradualità e dunque valutare se le misure meno invasive possano essere sufficienti a fini di prevenzione epidemiologica.

In tale prospettiva non pone particolari problemi l’acquisizione di trend, effettivamente anonimi, di mobilità. L’art. 9 della direttiva e-privacy legittima il trattamento, anche in assenza del consenso dell’interessato, dei dati relativi all’ ubicazione, purché anonimi.

Tale soluzione consente di realizzare, ad esempio, mappe descrittive dell’andamento dell’epidemia, utilissime a fini prognostici e statistici, meno a scopi diagnostici in senso proprio.

Per altro verso, l’uso di dati identificativi sull’ubicazione o sull’interazione con altri dispositivi può risultare funzionale a diversi scopi.

In ogni caso, esso richiede – anche ai sensi dell’art. 15 della direttiva e-privacy – una disposizione normativa sufficientemente dettagliata e contenente adeguate garanzie.

I vari utilizzi possibili di tali dati possono essere finalizzati, in via teorica (e ragionando nei termini assunti dal dibattito pubblico di queste settimane):

a) o alla verifica della posizione del soggetto sottoposto ad obbligo di permanenza domiciliare perché positivo, utilizzando dunque la geolocalizzazione del telefono (che si presuppone, ma non è detto, segua passo passo il soggetto) per accertare l’effettivo rispetto del divieto di allontanamento dal domicilio, oppure:

b) all’acquisizione, a ritroso, dei dati sull’interazione del soggetto poi risultato positivo con altri soggetti, per verificarne, nel periodo in cui aveva capacità virale, gli eventuali contatti desumibili tramite varie tecniche: celle telefoniche, gps, bluetooth.

Le due ipotesi differiscono nella finalità: elemento, questo, indubbiamente rilevante per la valutazione della complessiva legittimità del trattamento.

La prima ipotesi infatti, nell’utilizzare la localizzazione del telefono come fosse una sorta di braccialetto elettronico atipico, presuppone la sostituzione, con l’occhio elettronico, dei controlli “umani”, dando però per acquisito che chi decida di violare gli obblighi di permanenza domiciliare porti con sé il telefono, il che è evidentemente contro-intuitivo.

Tra le altre misure utilizzate a fini di verifica del rispetto degli obblighi di distanziamento sociale vi è il ricorso, da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, ai droni.

Anche tali strumenti vanno utilizzati nel rispetto del canone di proporzionalità, soprattutto in ragione delle loro potenzialità particolarmente invasive della riservatezza.

Se utilizzata dalle forze di polizia, non per segnalare “impersonali” assembramenti, ma per monitorare il rispetto puntuale degli obblighi di permanenza domiciliare, infatti, tale misura difficilmente potrà garantire il rispetto del canone di proporzionalità, potendo prestarsi a una raccolta assai ampia di dati personali.

Sarebbe auspicabile, sul punto, una precisazione normativa, considerando anche che la norma di riferimento richiama genericamente le (non del tutto sovrapponibili) esigenze di controllo del territorio per finalità di pubblica sicurezza, contrasto del terrorismo e del crimine organizzato (cfr. art. 5, c.3-sexies d.l, n. 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla l. 43/2015, come novellato dal dl 113/2018, convertito con modificazioni dalla l. 132/2018).

3. Il contact tracing

Più complessa è la seconda ipotesi, relativa alla mappatura a ritroso dei contatti tenuti, nel periodo d’incubazione, da soggetti risultati contagiati. Tale ricostruzione dei contatti può avvenire, almeno astrattamente, attraverso l’incrocio di tipologie di dati diversi: quelli sulle transazioni commerciali, sulle celle telefoniche, quelli sull’interazione con altri dispositivi mobili desunti dal ricorso a tecnologie bluetooth.

Va premesso che ciascuna tipologia di questi dati ha, naturalmente, una diversa significatività a fini epidemiologici, tanto maggiore quanto più idonea a selezionare i contatti più rilevanti perché più ravvicinati e, dunque, maggiormente suscettibili di aver determinato, almeno potenzialmente, un contagio.

Come vedremo più avanti, la scelta della tipologia di dati più efficace incide anche sul complessivo giudizio di proporzionalità, in quanto la maggiore selettività riduce il perimetro di incidenza della misura al solo stretto necessario, con effetti socialmente apprezzabili in termini di tutela della salute, individuale e collettiva.

In termini generali, comunque, il fine perseguito da tale misura risulta particolarmente apprezzabile perché non già repressivo (come invece nel caso della sorveglianza del soggetto in quarantena obbligatoria mediante la sua geolocalizzazione), ma solidaristico.

Lo scopo perseguito coinciderebbe, infatti, con l’esigenza di sottoporre ad accertamenti quanti siano entrati potenzialmente in contatto con un soggetto risultato positivo al virus o, comunque, di adottare le misure utili a prevenire il contagio.

Si perseguirebbe, dunque, quella componente solidaristica del diritto alla salute quale interesse collettivo, valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale sugli obblighi vaccinali.

L’utilizzo di tale tecnologia avrebbe, del resto, poche valide alternative ai fini della ricostruzione della catena epidemiologica.

La semplice intervista del paziente può essere, infatti, lacunosa o comunque scontare la mancata conoscenza di molti soggetti con i quali si possa essere entrati in contatto nei più vari contesti (in farmacia, al supermercato ecc.).

Un elemento di fragilità delle soluzioni basate sui dati acquisiti da telefono attiene, però, al suo presupporre che tutti si spostino con il telefono addosso. E se questo avviene quasi sistematicamente per le fasce più giovani della popolazione, non avviene altrettanto sicuramente per gli anziani, che dovrebbero invece essere i primi a dover essere contattati in caso di temuto contagio, per essere curati con la massima tempestività.

Le soluzioni “tecnologiche” sono, infatti, validissime alleate dell’azione di prevenzione epidemiologica ma necessitano, evidentemente, di misure complementari di diversa natura, idonee a superare i limiti imposti, tra le altre cose, dal divario digitale.

Tale considerazione, sui limiti intrinseci alle opzioni tecnologiche, ha un duplice ordine di implicazioni.

In primo luogo, la valutazione dell’efficacia attesa dalla misura non può prescindere da un’analisi inerente le azioni complementari e, dunque, la fase- che dovrebbe ragionevolmente conseguirne- dell’accertamento sanitario dei soggetti individuati, tramite data tracing, quali potenziali contagiati.

Si possono raccogliere, infatti, tutti i dati possibili sui potenziali portatori (sani o meno che siano), ma se poi non si hanno le risorse (e persino i reagenti!) per accertarne l’effettiva positività, non si va molto lontano.

In secondo luogo, la necessità di ricostruire la catena dei contagi mediante i dati di dispositivi elettronici rende problematica l’imposizione di un obbligo generalizzato di uso di tali sistemi. Ciò, infatti, presupporrebbe la possibilità (non solo economica ma anche cognitiva) di utilizzo di smartphone e di loro funzionalità che non sono, oggettivamente, a tutti accessibili.

Inoltre, un simile obbligo di utilizzo sarebbe difficilmente coercibile salvo ricorrere a un vero e proprio braccialetto elettronico.

Se anche si ritenesse, come pure si sta ipotizzando, di far attivare il bluetooth direttamente da una app, come imporre, infatti, di uscire di casa solo se ‘accompagnati’ dal proprio smartphone, tra l’altro abbastanza carico?

Queste considerazioni inducono a preferire il ricorso a sistemi fondati sulla volontaria adesione dei singoli che consentano il tracciamento della propria posizione. Tuttavia, per garantire la reale libertà (e quindi la validità) del consenso al trattamento dei dati, esso non dovrebbe risultare in alcun modo condizionato.

Pertanto, non potrebbe ritenersi effettivamente valido, perché indebitamente e inevitabilmente condizionato, il consenso prestato al trattamento dei dati acquisiti con tali sistemi, se prefigurato come presupposto necessario, ad esempio, per usufruire di determinati servizi o beni (si pensi al sistema cinese).

L’efficacia diagnostica di tale soluzione dipende, in ogni caso, dal grado di adesione che essa incontri tra i cittadini, in quanto la rilevazione potrebbe per definizione avvenire solo limitatamente alla parte della popolazione che consenta di “farsi tracciare”.

La percentuale minima per l’efficacia è stimata nell’ordine del 60%.

E se a Singapore tale soluzione ha visto l’adesione di pressoché tutta la popolazione, ciò sembra imputabile prevalentemente alla specifica cultura e al grado molto avanzato di innovazione digitale di quel Paese.

Ciò non esclude però che un’adeguata sensibilizzazione sull’opportunità di ricorrere a tale tecnica, anche solo a fini egoistici- ovvero per essere informati di essere stati potenzialmente e inconsapevolmente contagiati tramite un contatto con soggetti positivi- possa invece consentire un’ampia adesione dei cittadini.

In tal senso, quindi, la volontaria attivazione di una app funzionale alla raccolta dei dati sull’interazione dei dispositivi, ben potrebbe rappresentare il presupposto di uno schema normativo fondato su esigenze di sanità pubblica, con adeguate garanzie per gli interessati (art. 9, p.2, lett.i) Reg. (Ue) 2016/679).

La seconda fase del trattamento (quella, cioè, successiva alla rilevazione dei dati) consiste essenzialmente nella conservazione degli stessi, in vista del loro eventuale, successivo utilizzo per allertare i potenziali contagiati.

Tale opera di “personalizzazione” dovrebbe avvenire limitatamente ai soggetti risultati poi positivi e a coloro ai quali, con essi, siano entrati in contatto significativo, per il solo periodo di potenziale contagiosità.

Sotto il profilo dell’impatto sulla riservatezza, determinato dalla conservazione in sé dei dati, in vista del loro successivo utilizzo, è certamente preferibile la soluzione della registrazione del “diario dei contatti” sullo stesso dispositivo individuale nella disponibilità del soggetto. Si eviterebbe così la conservazione di dati personali in banche dati dei gestori, che riproporrebbe le criticità rilevate dalla giurisprudenza della Cgue sulla data retention.

I criteri di necessità, proporzionalità e minimizzazione rimarcati dalla giurisprudenza europea indicano, comunque, l’esigenza di contenere tali limitazioni della privacy nella misura strettamente necessaria a perseguire fini rilevanti, con il minor sacrificio possibile per gli interessati.

Seguendo questo criterio, dovremmo allora ritenere anzitutto preferibile la misura più selettiva, che garantisca cioè il minor ricorso possibile a dati identificativi, sia in fase di raccolta sia in fase di conservazione.

In tal senso, ai fini della raccolta, il bluetooth, restituendo dati su interazioni più strette di quelle individuabili in celle telefoniche assai più ampie, parrebbe migliore nel selezionare i possibili contagiati all’interno di un campione più attendibile perché, appunto, limitato ai contatti significativi (così parrebbero orientati Singapore e Germania).

In particolare, sarebbero apprezzabili quelle tecnologie che mantengono il diario dei contatti esclusivamente nella disponibilità dell’utente, sul suo dispositivo, ragionevolmente per il solo periodo massimo di potenziale incubazione.

Il soggetto che risultasse positivo dovrebbe fornire l’identificativo Imei del proprio dispositivo all’asl, che sarebbe poi tenuta a trasmetterlo al server centrale per consentirgli così di ricostruire, tramite un calcolo algoritmico, i contatti tenuti con altre persone le quali si siano, parimenti, avvalse dell’app blue tooth.

Queste ultime riceverebbero poi una segnalazione (nella forma di un alert sul sistema) di potenziale contagio, con l’invito a sottoporsi ad accertamenti che, naturalmente, sarà efficace nella misura in cui sia responsabilmente seguito.

In tal modo, il tracciamento sarebbe affidato a un flusso di dati pseudonimizzati, suscettibili di reidentificazione solo in caso di rilevata positività.

Anche in tali circostanze, comunque, la stessa comunicazione tra server centrale ed app dei potenziali contagiati avverrebbe senza consentirne la reidentificazione, così minimizzando l’impatto della misura sulla privacy individuale.

In alternativa all’alert intra-app, si potrebbe ipotizzare che sia direttamente l’asl ad avvisare e, quindi, sottoporre ad accertamento le persone le quali, dalle rilevazioni bluetooth, risultino essere entrate in contatto significativo con il soggetto positivo.

La conservazione dei dati di contatto, da parte del server, dovrebbe comunque limitarsi al tempo strettamente indispensabile alla rilevazione dei potenziali contagiati.

L’anamnesi rimessa al medico consentirebbe, poi, di realizzare quell’intervento umano sul processo algoritmico richiesto dal Regolamento 2016/679 per evitare l’esclusiva soggezione umana a decisioni automatizzate, correggendone anche, così, possibili distorsioni e inesattezze.

In ogni caso, è auspicabile che la complessa filiera del contact tracing possa  realizzarsi interamente in ambito pubblico.

Ove, tuttavia, ciò non fosse possibile e anche solo un segmento del trattamento dovesse essere affidato a soggetti privati, essi dovrebbero possedere idonei requisiti di affidabilità, trasparenza e controllabilità, rigorosamente asseverati.

Potrebbe infine essere utile prevedere specifici reati propri, suscettibili di realizzazione da parte di coloro che, potendo avere accesso ai dati per qualunque ragione anche operativa, li utilizzino per altre finalità.

La soluzione ipotizzata ridurrebbe, verosimilmente allo stretto necessario, la sua incidenza sulla riservatezza. Tuttavia, benché non massivo, il trattamento di dati personali comunque realizzato richiederebbe, auspicabilmente, una norma di rango primario, (anche un decreto-legge, che assicura la tempestività dell’intervento, pur non omettendo il sindacato parlamentare né quello successivo di costituzionalità, diversamente dalle ordinanze).

Ove non si procedesse a un intervento legislativo ad hoc, sarebbe opportuno quantomeno integrare l’art. 14 dl 14/20, anche con misure di garanzia da prevedersi eventualmente con fonte subordinata.

La norma avrebbe anche una rilevante funzione performativa, fornendo una cornice generale di regole e garanzie cui uniformarsi anche a livello locale. Si eviterebbero così le autonome iniziative, differenziate da zona a zona che- in quanto spesso scoordinate e poco verificabili – rischiano di indebolire l’efficacia complessiva della strategia di contrasto. Quest’esigenza di uniformità vale sia a livello interno che sovranazionale. E’, in questo senso, assolutamente condivisibile l’auspicio del Garante europeo per la protezione dei dati, in favore dell’adozione di un unico progetto di data tracing in ambito europeo.

Naturalmente, come prescritto dalla Consulta per le disposizioni emergenziali, è fondamentale l’efficacia temporalmente limitata della norma, da revocare non appena terminato lo stato di necessità o, comunque, ove la prassi ne dimostri la scarsa utilità (in tal senso, sarebbero opportuni controlli periodici).

Ed è essenziale sancire (con il presidio di sanzioni adeguate) l’obbligo di cancellazione dei dati decorso il periodo di potenziale utilizzo (salva la conservazione in forma aggregata o comunque anonima per soli fini statistici o di ricerca) e l’illiceità di qualsiasi riutilizzo dei dati per fini diversi da quelli di tracciamento dei contatti, nei termini suindicati.

Così circoscritto, il ricorso al contact tracing potrebbe anche concorrere all’eventuale formazione del “passaporto sanitario digitale”.

Ci riferiamo, in particolare, alle varie iniziative suscettibili di adozione nella fase di ripresa delle attività, per la valutazione del grado individuale di rischio epidemico.

Vanno studiate, dunque, modalità e ampiezza delle misure da adottare in vista della loro efficacia, gradualità e adeguatezza, senza preclusioni astratte o tantomeno ideologiche, ma anche senza improvvisazioni o velleitarie deleghe, alla sola tecnologia, di attività tanto necessarie quanto complesse.

La chiave è nella proporzionalità, lungimiranza e ragionevolezza dell’intervento, oltre che naturalmente nella sua temporaneità.

Il rischio che dobbiamo esorcizzare è quello dello scivolamento inconsapevole dal modello coreano a quello cinese, scambiando la rinuncia a ogni libertà per l’efficienza e la delega cieca all’algoritmo per la soluzione salvifica.

Fonte: Garante Privacy

Newsletter 06/04/2020 – Sanità e ripartizione dei fondi: Garante Privacy chiede adeguate garanzie

6 Marzo 2020

Sanità e ripartizione dei fondi: il Garante Privacy chiede adeguate garanzie
Parere del Garante sul progetto del Ministero della salute che prevede la profilazione socio-sanitaria della intera popolazione italiana

Il progetto del Ministero della salute che prevede la ripartizione dei fondi economici per il Sistema sanitario nazionale (Ssn) attraverso la profilazione socio-sanitaria dell’intera popolazione italiana manca al momento di una base giuridica adeguata e di sufficienti tutele per le persone.  L’aggiornamento dei parametri di ripartizione del Fondo sanitario nazionale potrebbe, in ogni caso, essere già realizzato attraverso le analisi effettuate nell’ambito del Programma Statistico Nazionale.

Queste alcune delle valutazioni che il Garante per la privacy ha espresso al Consiglio di Stato, in merito a un quesito sottoposto allo stesso Consiglio di Stato dal Ministero della salute relativo ai nuovi criteri di ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale (Fsn), che prevedono il trattamento di dati personali, anche sulla salute, di tutti i cittadini assistiti dal Ssn.

Il Ministero della salute intende procedere alla distribuzione delle risorse economiche dello Stato tra le Regioni, passando da un modello basato sull’età della popolazione, ad uno fondato sull’effettiva necessità del territorio, la cui realizzazione presuppone la profilazione dello stato di salute dell’intera popolazione. Per raggiungere tale obiettivo, il Dicastero ha così proposto di raccogliere e interconnettere molteplici banche dati, sia interne al Ministero che di altre amministrazioni, come l’Istat e l’Anagrafe tributaria, in modo da definire il “profilo sanitario individuale” di ogni singolo utente del sistema sanitario, da collegare poi a quello reddituale (“status sociale”). Tale profilazione (“stratificazione”) dell’intera popolazione italiana, evidenzierebbe, secondo il Ministero, i reali bisogni economici sanitari delle regioni e costituirebbe, quindi, l’elemento centrale per una più equa distribuzione del fondo sanitario sul territorio.

Nel proprio parere, il Garante ha riconosciuto l’importanza di una migliore ripartizione del Fondo sanitario nazionale, basata su un’effettiva definizione dei diversi bisogni regionali, ma ha richiamato l’attenzione sulla necessità che i trattamenti di dati personali connessi a tale nuovo sistema di ripartizione siano effettuati nel pieno rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il progetto ministeriale prevede infatti la creazione di un profilo individuale di ogni assistito, basato sulle patologie croniche e sulla situazione reddituale individuale, che, attraverso l’uso di algoritmi, saranno utilizzati per suddividere tutta la popolazione in gruppi (stratificazione).

L’Autorità ha rilevato, infatti, che il nuovo modello di ripartizione potrà essere attivato solo superando alcune criticità.

A partire dal fatto che l’attuale normativa di settore non consente al Ministero della salute l’interconnessione dei flussi del Nuovo sistema informativo sanitario (NSIS) per la ripartizione del fondo sanitario e che manca un’adeguata base normativa anche per l’acquisizione di dati raccolti da altre amministrazioni (come quelli del registro delle cause di morte presso l’Istat, quelli dell’anagrafe tributaria, oppure quelli delle esenzioni per patologia contenuti nelle anagrafi regionali).

Il Garante ha inoltre posto l’accento sul rischio che questi dati siano utilizzati dal Ministero per finalità ulteriori, come la “medicina predittiva” o “di iniziativa”, un modello assistenziale orientato a proporre agli assistiti interventi diagnostici mirati, sulla base del profilo sanitario individuale. Anche questi ultimi trattamenti di dati richiederebbero, come i precedenti, un’apposita base giuridica e la necessità di effettuare ulteriori riflessioni anche sui risvolti etici relativi alla profilazione sanitaria e sociale di massa. Sul punto, il Garante ha rimarcato che l’utilizzo dei dati dell’intera popolazione italiana dovrebbe essere suffragato, fin dalla progettazione, da una compiuta analisi circa i rischi per i diritti e le libertà fondamentali degli interessati, alla luce dei principi di responsabilizzazione e di protezione dei dati personali, nonché dalla relativa valutazione di impatto.

In un’ottica di piena collaborazione istituzionale, l’Autorità ha comunque segnalato, nel suo parere al Consiglio di Stato, che, in attesa di un intervento normativo specifico in materia, l’aggiornamento dei parametri di ripartizione del Fondo sanitario nazionale potrebbe essere già utilmente realizzato attraverso le analisi effettuate nell’ambito del Programma Statistico Nazionale.

L’equità della ripartizione delle risorse economiche sul territorio nazionale può essere quindi realizzata nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali, attraverso un intervento normativo puntuale, con riferimento al quale il Garante ha già da tempo manifestato la propria disponibilità per l’individuazione delle garanzie opportune.

Fonte: Garante Privacy

Coronavirus: Garante privacy su sito INPS, “Subito accertamenti, intanto chiudere falla”

Dichiarazione di Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
(Patrizia Perilli, “Adnkronos” – 1° aprile 2020)

”Siamo molto preoccupati per questo gravissimo data breach. Abbiamo immediatamente preso contatto con l’Inps e avvieremo i primi accertamenti per verificare se possa essersi trattato di un problema legato alla progettazione del sistema o se si tratti invece di una problematica di portata più ampia. Intanto è di assoluta urgenza che l’Inps chiuda la falla e metta in sicurezza i dati”. Così all’Adnkronos Antonello Soro, Garante Privacy, commentando il caso del sito dell’Inps andato in tilt.

”Quella della mancanza di sicurezza delle banche dati e dei siti delle amministrazioni pubbliche è – prosegue il Garante – una questione che si ripropone costantemente, segno di una ancora insufficiente cultura della protezione dati nel nostro Paese”.

Fonte: Garante Privacy

Inps, sito in tilt: il Garante privacy avvia l’istruttoria Chiunque sia venuto a conoscenza dei dati non li utilizzi e non li diffondaInps, sito in tilt: il Garante privacy avvia l’istruttoria Chiunque sia venuto a conoscenza dei dati non li utilizzi e non li diffonda

A seguito delle numerose segnalazioni pervenute e della notifica di data breach effettuata dall’INPS, in relazione alla violazione di dati personali che ha riguardato il suo sito istituzionale, il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato un’istruttoria allo scopo di effettuare opportune verifiche e valutare l’adeguatezza delle contromisure adottate dall’Ente e gli interventi necessari a tutelare i diritti e le libertà degli interessati.

Al fine di non amplificare i rischi per le persone i cui dati personali sono stati coinvolti nel data breach e non incorrere in possibili illeciti, l’Autorità richiama l’attenzione sulla assoluta necessità che chiunque sia venuto a conoscenza di dati personali altrui non li utilizzi ed eviti di comunicarli a terzi o diffonderli, ad esempio sui canali social, rivolgendosi piuttosto allo stesso Garante per segnalare eventuali aspetti rilevanti.

Roma, 2 aprile 2020

Fonte: Garante Privacy

Coronavirus: didattica on line, dal Garante privacy prime istruzioni per l’uso

Nell’intento di fornire a scuole, atenei, studenti e famiglie indicazioni utili a un utilizzo quanto più consapevole e positivo delle nuove tecnologie a fini didattici, il Garante per la privacy ha approvato uno specifico atto di indirizzo che individua le implicazioni più importanti dell’attività formativa a distanza sul diritto alla protezione dei dati personali.

Nella lettera inviata al Ministro dell’Istruzione, al Ministro dell’Università e della ricerca e al Ministro per le pari opportunità e la famiglia per illustrare gli obiettivi del provvedimento, il presidente dell’Autorità Garante, Antonello Soro, ha ricordato che “il contesto emergenziale in cui versa il Paese ha imposto alle istituzioni scolastiche e universitarie, nonché alle famiglie stesse, l’esigenza di proseguire l’attività didattica con modalità innovative, ricorrendo alle innumerevoli risorse offerte dalle nuove tecnologie. È una soluzione estremamente importante per garantire la continuità didattica”. E tuttavia, ha sottolineato Soro, “le straordinarie potenzialità del digitale – rivelatesi soprattutto in questo frangente indispensabili per consentire l’esercizio di diritti e libertà con modalità e forme nuove – non devono indurci a sottovalutare anche i rischi, suscettibili di derivare dal ricorso a un uso scorretto o poco consapevole degli strumenti telematici, spesso dovuto anche alla loro oggettiva complessità di funzionamento”. “Considerando che, spesso, per i minori che accedono a tali piattaforme si tratta delle prime esperienze (se non addirittura della prima) di utilizzo di simili spazi virtuali, è evidente come anche quest’attività vada svolta con la dovuta consapevolezza, anche sulla base delle indicazioni fornite a livello centrale”.

Da qui l’esigenza di assicurare al mondo della scuola e dell’università un supporto utile alla gestione della didattica on line.

Queste, in sintesi, le prime ” istruzioni per l’uso  ” indicate del Garante.

Nessun bisogno di consenso

Le scuole e le università che utilizzano sistemi di didattica a distanza non devono richiedere il consenso al trattamento dei dati di docenti, alunni, studenti, genitori, poiché il trattamento è riconducibile alle funzioni istituzionalmente assegnate a scuole e atenei.

Scelta e regolamentazione degli strumenti di didattica a distanza

Nella scelta e nella regolamentazione degli strumenti più utili per la realizzazione della didattica a distanza scuole e università dovranno orientarsi verso strumenti che abbiano fin dalla progettazione e per impostazioni predefinite misure a protezione dei dati. Non è necessaria la valutazione di impatto, prevista dal Regolamento europeo per i casi di rischi elevati, se il trattamento dei dati effettuato dalle istituzioni scolastiche e universitarie, per quanto relativo a minorenni e a lavoratori, non presenta ulteriori caratteristiche suscettibili di aggravarne i rischi. Ad esempio, non è richiesta la valutazione di impatto per il trattamento effettuato da una singola scuola (non, quindi, su larga scala) nell’ambito dell’utilizzo di un servizio on line di videoconferenza o di una piattaforma che non consente il monitoraggio sistematico degli utenti.

Ruolo dei fornitori dei servizi on line e delle piattaforme

Se la piattaforma prescelta comporta il trattamento di dati personali di studenti, alunni o dei rispettivi genitori per conto della scuola o dell’università, il rapporto con il fornitore dovrà essere regolato con contratto o altro atto giuridico. E’ il caso, ad esempio, del registro elettronico, il cui fornitore tratta i dati per conto della scuola. Nel caso, invece, in cui si ritenga necessario ricorrere a piattaforme più complesse che eroghino servizi più complessi anche non rivolti esclusivamente alla didattica, si dovranno attivare i soli servizi strettamente necessari alla formazione, configurandoli in modo da minimizzare i dati personali da trattare (evitando, ad esempio, geolocalizzazione e social login).

Le istituzioni scolastiche e universitarie dovranno assicurarsi che i dati trattati per loro conto siano utilizzati solo per la didattica a distanza.

L’Autorità vigilerà sull’operato dei fornitori delle principali piattaforme per la didattica a distanza, per assicurare che i dati di docenti, studenti e loro familiari siano trattati nel pieno rispetto della disciplina di protezione dati e delle indicazioni fornite dalle istituzioni scolastiche e universitarie.

Limitazione delle finalità del trattamento dei dati

Il trattamento di dati svolto dalle piattaforme per conto della scuola o dell’università dovrà limitarsi a quanto strettamente necessario alla fornitura dei servizi richiesti ai fini della didattica on line e non per ulteriori finalità proprie del fornitore.

I gestori delle piattaforme non potranno condizionare la fruizione di questi servizi alla sottoscrizione di un contratto o alla prestazione del consenso (da parte dello studente o dei genitori) al trattamento dei dati per la fornitura di ulteriori servizi on line, non collegati all’attività didattica.

Ai dati personali dei minori, inoltre, va garantita una specifica protezione poiché i minori possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e dei loro diritti. Tale specifica protezione deve, in particolare, riguardare l’utilizzo dei loro dati a fini di marketing o di profilazione.

Correttezza e trasparenza nell’uso dati

Per garantire la trasparenza e la correttezza del trattamento, le istituzioni scolastiche e universitarie devono informare gli interessati (alunni, studenti, genitori e docenti), con un linguaggio comprensibile anche ai minori, riguardo, in particolare, alle caratteristiche essenziali del trattamento che viene effettuato. Relativamente ai docenti, scuole e università, nel rispetto della disciplina sui controlli a distanza, dovranno trattare solo i dati strettamente necessari e comunque senza effettuare indagini sulla sfera privata.

Roma, 30 marzo 2020

Fonte: Garante Privacy

Coronavirus: Busia, sì alla app ma con garanzie adeguate. Segretario generale Garante, non si accresca potere piattaforme

Intervista a Giuseppe Busia, Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali
(Ansa, 31 marzo 2020)

“Il Garante ha accolto volentieri l’invito a partecipare al Gruppo di lavoro costituito dal ministro dell’Innovazione, pur nella sua particolare posizione, che lo vedrà probabilmente chiamato ad esprimere un parere sulle scelte che il governo farà nella selezione fra le diverse soluzioni tecnologiche proposte. Siamo infatti convinti che avviare un dialogo fin da subito, oltre a consentire di guadagnare tempo – oggi quanto mai prezioso- serva anche a dare la migliore applicazione ai principi della privacy by design e by default, che caratterizzano il Gdpr, il regolamento generale sulla protezione dei dati”. A dirlo all’ANSA è Giuseppe Busia, segretario generale dell’Autorità per la protezione dei dati personali, tra i 74 esperti della task force tecnologica contro il coronavirus.

“La normativa sulla protezione dei dati personali – afferma Busia – ha già al suo interno regole che consentono di trattare anche i dati più delicati, quali sono quelli sul contagio, quando questo serve realmente a tutelare la salute dei singoli o della collettività. Occorre però che questo avvenga sulla base di una normativa trasparente, contenente garanzie adeguate, e che i dati siano utilizzati solo per tali finalità e non divengano strumento per accrescere il potere informativo delle piattaforme o dei grandi operatori. Per questo, ogni trattamento deve avvenire sotto la regia delle autorità pubbliche competenti, per il tempo strettamente necessario, ed utilizzando dati anonimi o aggregati ogniqualvolta non sia indispensabile accedere a informazioni identificative”.

“Il principio di ragionevolezza, alla base del Gdpr, deve animare le scelte che saranno compiute, senza immaginare – avverte Busia – che la tecnologia possa da sola risolvere tutti i problemi: di fronte ad ogni ipotesi, occorrerà innanzi tutto verificare la reale efficacia a fini epidemiologici e di cura, valutando anche la capacità di azione e reazione dell’apparto sanitario e amministrativo rispetto alle informazioni raccolte”.

In questi giorni, ricorda il segretario generale, il Garante è anche impegnato in un continuo coordinamento con le altre Autorità di protezione dati europee che, anche se con qualche ritardo rispetto alla nostra, via via si trovano a confrontarsi con gli stessi temi. Occorre infatti ricordare che la normativa sui dati è comune a tutti i paesi Ue e rappresenta una delle punte più avanzate dell’integrazione europea: come in altri settori, vogliamo che anche nel delicato ambito della tutela dei diritti fondamentali l’Europa parli con una voce sola”.

Fonte: Garante Privacy